Quando la pietra racconta: la città dell’Aquila e la Fontana delle 99 Cannelle
Se è vero che la storia di una città è raccontata anche – e, forse principalmente – dai suoi edifici e monumenti, questa realtà è ancora più evidente per L’Aquila, la “città nuova” capoluogo d’Abruzzo. Nel suo centro storico, infatti, è possibile notare il frequente accostamento di edifici medievali e rinascimentali a quelli barocchi, fino ai più recenti. Questa varietà costruttiva è dovuta non solo al naturale mutamento degli stili architettonici che si sono susseguiti lungo il corso dei secoli, ma anche ai terremoti che hanno colpito a più riprese la città e il suo territorio, com’è avvenuto per il tristemente noto sisma dell’aprile 2009.
C’è, però, un monumento in particolare che è indissolubilmente legato alle vicende aquilane delle origini: la Fontana delle Novantanove Cannelle. L’opera si trova nella parte bassa e periferica della città; a ridosso dell’antica cinta muraria e a pochi passi dalla stazione ferroviaria, dove, anticamente, esisteva un borgo chiamato Acculum, Acculae o Accula. Questo nome, da cui è derivato quello della città, sta a indicare l’abbondante presenza di acqua; nello specifico quella del fiume Aterno che scorre poco lontano.
Due sono gli elementi che inizialmente colpiscono i visitatori: la struttura muraria composta di pietre squadrate bianche e rosa; e la sequenza di mascheroni in pietra bianca da cui zampilla allegramente l’acqua, che assegnano il nome alla fontana.
Per essere precisi, di questi volti particolari – molti dei quali caratterizzati da una grottesca mescolanza tra uomo e animale – se ne contano novantatré. Nel 1871 furono aggiunte sei piccole cannelle per arrivare al “fatidico” numero novantanove.
Quando la pietra racconta: la Fontana delle 99 Cannelle
A questo punto, la domanda potrebbe sorgere spontanea: perché proprio questa cifra e non, magari, cento? Ed è qui che entrano in gioco storia e leggenda. Partiamo dalla prima, per poi far subentrare la seconda.
Come mai, in apertura, si è definita L’Aquila “città nuova”? Perché, a differenza di altri importanti centri abruzzesi come Chieti, Lanciano, Teramo e Sulmona – solo per citarne alcuni – che hanno origini preromane, la fondazione dell’Aquila risale alla prima metà del XIII secolo. A quell’epoca, il Regno di Sicilia, di cui l’Abruzzo fa parte, è dominato dalla dinastia sveva, che vede in Federico II un sovrano illuminato, ma anche pugnace.
Egli concentra tutto il potere nelle sue mani, a discapito dei feudatari che hanno sempre mal sopportato forme di potere imposte dall’alto. Così, nel 1229 gli abitanti dei contadi di Amiterno e Forcona – due località vicine al sito dove si trova oggi L’Aquila – chiedono a papa Gregorio IX di appoggiare l’iniziativa della fondazione di una nuova città che possa diventare polo di aggregazione per tutte le popolazioni dei castelli della valle dell’Aterno e porre un freno allo strapotere imperiale.
Anche l’imperatore Corrado IV di Svevia, figlio di Federico II, riconosce ufficialmente la nascita della nuova città che va ampliandosi fino a raggiungere una certa importanza, se già nel 1257 il papa v’insedia una diocesi. Com’è noto, questo periodo della storia medievale è caratterizzato dallo scontro continuo tra Impero e Papato, e anche L’Aquila ne rimane coinvolta, pagandone lo scotto: nel 1259 Manfredi di Svevia incendia la città, “colpevole” di essersi schierata a favore del partito guelfo, cioè del papa.
La nascita di una nuova città
In seguito alla distruzione, il vescovo torna alla sua antica sede di Forcona, e gli abitanti ai castelli dai quali sono venuti… il sogno di far crescere una nuova città sembra svanito per sempre, ma i capovolgimenti improvvisi – specie per quanto riguarda i corsi e ricorsi storici – si celano spesso dietro l’angolo. Papa Urbano IV, deciso a eliminare definitivamente gli odiati svevi dalla scena politica italiana, offre la corona a Carlo I d’Angiò, francese come lui.
L’angioino sconfigge prima Manfredi a Benevento, il 26 febbraio 1266, e poi, il 23 agosto 1268, nella battaglia di Tagliacozzo, l’adolescente Corradino di Svevia, figlio di Corrado IV e ultimo esponente della dinastia tedesca. Da questo momento in poi, si apre una nuova fase della storia dell’Aquila: riconoscente verso gli aquilani che gli hanno offerto un valido aiuto a Tagliacozzo, Carlo I d’Angiò favorisce la ricostruzione della città; da questo momento in poi cresce rapidamente, risorgendo dalle ceneri come l’Araba Fenice.
Tutto è studiato e progettato a tavolino, creando a un episodio urbanistico innovativo che è stato paragonato alla nascita, nel XVIII secolo, di San Pietroburgo in Russia, voluta da Pietro il Grande. L’Aquila è riprogettata ex novo riservando a ciascun castello fondatore una porzione di terreno (un “locale”) dove gli abitanti che si trasferiscono in città possono costruire le loro case con una chiesa, una piazza e una fontana pubblica, che sono una replica di quelle del castello di provenienza. Nel 1276, L’Aquila è suddivisa in quattro quartieri, tuttora esistenti, nei quali si distribuiscono i cittadini a seconda della zona di provenienza: i quarti di San Pietro e San Giovanni, e quelli di San Giorgio e Santa Maria.
L’Edificazione della Fontana
E a questo punto, torna in gioco la Fontana delle Novantanove Cannelle, edificata nel 1272, vale a dire nel pieno della rifondazione angioina della città. Il monumento è costruito per attingere acqua, lavare i panni, abbeverare gli animali; ma soprattutto per la lavorazione della lana, il cui commercio è basilare per l’economia del luogo.
L’aspetto attuale è frutto d’ingrandimenti operati nel corso degli anni; all’inizio, infatti, vi era un solo prospetto – quello frontale ai visitatori – con una quindicina di mascheroni e cannelle. Architetto e scultore dell’opera è Tancredi da Pentima (l’antica Corfinio, vicino a Sulmona) il cui nome e la data 1272 sono riportati nella lapide murata nella parete centrale, dove campeggia anche un antico stemma della città.
La fontana inizia ad assumere un aspetto monumentale, proprio con la costruzione della caratteristica parete di pietra a scacchi bianchi e rosati. Verso la fine del Cinquecento, per migliorare la comodità delle numerose lavandaie, sono aggiunte le vasche laterali con le rispettive maschere e le grandi pareti bicolori; quella di destra è addossata alle mura della città che ancora corrono lì a fianco.
La fontana acquista così, l’aspetto attuale, racchiudendo una piccola piazza trapezoidale che, agli inizi del XVI secolo, è impiegata anche per scopi “ricreativi”. Vi sono allestiti, infatti, feste, banchetti e spettacoli. La scelta cromatica che vede il delicato accostamento del bianco e del rosa è tipica dell’urbanistica aquilana; la ritroviamo, ad esempio, nella facciata della Basilica di Collemaggio e nella Fontana del Nettuno in Piazza Regina Margherita, nel centro della città. Non dobbiamo dimenticare, però, la componente leggendaria alla quale s’è accennato precedentemente. Il numero novantanove quantificato nei mascheroni e nelle cannelle della fontana.
Il mistero svelato
Questo ci riporta alla fondazione della città da parte dei castelli della Valle dell’Aterno e di un territorio ancora più ampio, che spazia da San Benedetto in Perillis a Montereale, da Rocca di Mezzo al Gran Sasso. Il capoluogo abruzzese è noto come la “città dei novantanove castelli”, per via di una leggenda nata forse alla fine del Seicento, secondo la quale tanti sono stati i castelli fondatori.
Come mai si è generato questo “mito”? Tutto è nato in seguito a un’indagine territoriale promossa dal fisco di Napoli nel 1529, quando sono censiti sessantadue castelli ancora abitati e trentasette abbandonati e in rovina. Dalla somma di queste due cifre si ottiene il numero novantanove. Ecco svelato il “mistero”! In realtà, già nel 1294, per ordine di Carlo II d’Angiò, L’Aquila fu censita e tassata assieme ai castelli che avevano preso parte alla sua fondazione e ricostruzione.
In questo elenco, che aveva fini puramente amministrativi e fiscali, figuravano settantuno castelli; mentre è noto che quelli veramente attivi e partecipi alla costruzione della città furono solamente dieci o dodici. Un antico racconto narra che il progettista della fontana, Tancredi da Pentima, fu addirittura ucciso e sepolto sotto la pavimentazione della piazzetta, per impedirgli di rivelare l’origine delle sorgenti d’acqua che alimentano l’affascinante monumento. Un restauro degli anni 1991-1994 le ha individuate, dipanando quest’altro mistero; una si trova a metà della parete centrale e altre due agli spigoli di quella sinistra.
Tuttavia, questa scoperta non sembra aver donato la pace al povero Tancredi. Secondo la leggenda, infatti, il suo fantasma infesterebbe ancora la fontana, che, dopo avergli assicurato la fama, è diventata la sua tomba.