Tra il comune di Erto e Casso nella provincia di Pordenone, in Friuli Venezia Giulia, oltre due cime innevate, c’è un enorme muro di cemento. È la diga del Vajont, costruita nei pressi dell’omonimo fiume, una delle chiuse più alte al mondo con i suoi 261,60 metri di altezza. Qui un tempo c’era l’acqua, oggi troviamo solo un vuoto assoluto a ricordarci una tragica pagina della storia italiana. Siamo nel 1963 quando, una frana provoca uno tsunami di 13 miliardi di galloni che si abbatte sulla valle del Piave, uccide oltre 2.000 persone. Tuttavia questo è solo l’epilogo di una catastrofe annunciata che inizia negli anni ‘20 e ‘30 del Novecento.
La costruzione della diga del Vajont
All’epoca in molti suggeriscono di costruire una diga idroelettrica nell’area tra le due creste montuose, ossia la gola del fiume Vajont. Solo nel secondo dopoguerra, grazie al Piano Marshall, che prevede aiuti economici per l’Europa occidentale, l’Italia inizia i lavori alla diga del Vajont. Che sarebbe servita a fornire il fabbisogno energetico a tutto il nord-est dell’Italia. L’edificazione è subito avviata dalla Società Adriatica di Elettricità (SADE) che detiene il monopolio dell’energia nel Paese. L’unico problema? Il picco a destra della diga è ufficialmente chiamato Monte Toc, la montagna che cammina, per la sua propensione agli smottamenti. E nel 1959 gli ingegneri scoprono che la nuova struttura ha provocato ulteriori frane e scosse di terremoto in tutta la valle. Successivamente i vicini comuni di Erto e Casso segnalano terribili eventi sismici a livello 5 della Scala Mercalli.
Nonostante le denunce dei civili e l’interessamento da parte di diverse testate giornalistiche la SADE inizia a colmare d’acqua il serbatoio all’inizio del 1960. Lo stesso anno a novembre i tecnici riempirono ulteriormente il bacino. Quando nel 1963 la diga è piena le cose precipitano, il lato sud del Monte Toc comincia a spostarsi fino a un metro al giorno. Finché il 9 ottobre 1963 alle 22:39, improvvisamente un enorme blocco di terra cade provocando una frana. 270 milioni di metri cubi di roccia, che in circa un minuto scivolano nel lago artificiale ad una velocità di 100 km/h. L’impatto devastante provoca due gigantesche onde, alte più di 250 metri. La prima raggiunge Casso ed Erto, risparmiando i due paesi per pochissimo, ma spazza via alcune frazioni. La seconda, la più terribile, finisce nella valle del Piave, verso ovest e cancella quasi completamente la cittadina di Longarone.
Un museo per conservare la memoria
La colpa del disastro fu attribuita ai progettisti e dirigenti della SADE, infatti sapevano che la zona da edificare era ad alto rischio di frana. Inoltre, la sera dell’accaduto, il livello di acqua all’interno del bacino artificiale era ben oltre il limite raccomandato e consentito dagli ingegneri. Nel 2008, l’UNESCO ha elencato questo cataclisma come uno dei peggiori disastri ambientali causati dall’uomo nella storia. Oggi il colossale sbarramento del Vajont domina ancora il paesaggio, mentre l’80% degli abitanti di Longarone e molte costruzioni della città stessa non esistono più. In questa città quel che resta è la memoria mantenuta viva dal Museo Vajont che racconta questa immane tragedia. Nel ricordo delle tante vittime e nella profonda commozione per il coraggio dei superstiti che, in uno stato di totale annientamento, hanno coltivato la speranza.