Collezione Italo Rota Saggio mostra Pianeta città

Collezione Italo Rota Saggio mostra Pianeta città

Collezione Italo Rota: un intenso saggio sulla mostra Pianeta città. Arti cinema musica design nella Collezione Rota 1900-2021

Questa mostra è concepita come un viaggio iniziatico per risolvere alcune questioni che ognuno di noi può porsi sul luogo fisico in cui oggi viviamo, che può essere una città, una città diffusa, una grande metropoli, una megalopoli. Tutte queste tipologie, per poter evolvere e continuare a essere i luoghi della nostra vita, hanno bisogno che noi ci poniamo domande su di esse.

La prima questione è la nostra relazione con la natura. È un grande tema, perché la natura non sono soltanto gli alberi e i giardini, ma tutto l’insieme degli altri esseri viventi con cui dobbiamo condividere il pianeta. La mostra vuole essere un’iniziazione alla complessità di questo tema e porre domande: domande che riguardano alcuni temi nati anche cento anni fa, ma che sono ancora di piena attualità e cercano una risposta.

Yokoo La città e il design manifesto 1966 – Collezione Italo Rota
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Gli oggetti esposti cercano di relazionarsi tra di loro, creando in questo modo qualcosa che potremmo definire una sorta di archivio dei beni comuni sul tema della città. Gli archivi, come sappiamo, parlano, ma bisogna anche saper farli parlare, dar loro un senso. È l’obiettivo di questa mostra.

I temi trattati, anche se hanno un ordine cronologico, in realtà si possono guardare da qualunque punto: sono frammenti di una grande mappa con cui dobbiamo orientarci per risolvere i problemi che ci attendono.

Collezione Italo Rota: le macchine arrivano in città

La mostra parte dell’avvento di alcune ‘macchine’ nella città: la biciletta, l’automobile. Questi strani oggetti, che riguardano il movimento e soprattutto la libertà individuale di muoversi, producono subito, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, grandi conseguenze. Basti pensare alle ruote, che portano alla nascita del copertone, alla vulcanizzazione della gomma, e subito si tirano dietro l’asfalto, le cui lunghe bande nere sostituiranno i materiali di cui erano fatte in precedenza le strade delle città. In pochissimi anni le città si ridefiniscono a causa dello pneumatico e del suo rapporto con il suolo.

Cambiano anche le distanze: la bicicletta rivoluzionò realmente non soltanto il sistema delle città, ma anche le relazioni tra le case operaie e le fabbriche, consentendo agli operai di abitare più distante dal loro luogo di lavoro. In pochi anni le biciclette che circolavano in Europa diventarono milioni.

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Marco Petrus, Interno [Milano], olio su tela 1997, collezione Italo Rota
Alla comparsa di ognuno di questi mezzi – arriverà poi l’aeroplano – il mondo si fa più piccolo, perché le distanze diminuiscono. Oggi possiamo dire di vivere in una sorta di pianeta minuscolo, una mappa in scala uno a uno in cui noi ci muoviamo. Un tempo aprire una carta geografica per orientarsi significava ragionare in termini di giornate o settimane di viaggio. Oggi il viaggio più lungo che possiamo fare sulla Terra è di ventidue ore, se dall’Italia per esempio andiamo in Nuova Zelanda. Quindi, un mondo estremamente piccolo.

Se poi pensiamo alla velocità dei satelliti o degli umani che sono nello spazio, lì le categorie riducono ulteriormente la dimensione del pianeta. A seconda delle orbite in cui si viaggia, in poco più di un’ora si fa il giro della Terra.

Siamo in dimensioni completamente nuove, e questo ci può portare a dire che non viviamo più sulla Terra, ma su una sorta di nave spaziale che naviga all’interno del sistema solare. Questa nave spaziale ha una caratteristica molto speciale: imbarca tutte le forme della vita, ed è quindi diventata estremamente fragile. Da almeno cent’anni il lavoro degli umani ha cominciato a interferire pesantemente con il naturale sviluppo del pianeta. Ora siamo arrivati al limite: bisogna inventare nuove soluzioni per il futuro.

La città è ancora attuale?

Nella mostra c’è anche il tema dell’innovazione, della trasformazione e del miglioramento della società. All’inizio del percorso, per esempio, ci sono utopie legate alla città. Dal falansterio alle città-giardino, queste utopie sono state una fase importante. Poi gli eventi hanno trasformato questo fenomeno in tutt’altra storia, perché gli umani hanno deciso di concentrarsi e di andare a vivere nelle città. Questo, secondo me, è stato il fenomeno più importante, che ha portato poi a tutte quelle rivoluzioni che oggi ci servono a gestire le grandi città: dall’informatica all’intelligenza artificiale. Le città sono diventate il luogo dove si producono le informazioni, le innovazioni e i pensieri: sono il luogo dell’umanità.

Ci sono dibattiti sulla concentrazione degli umani nelle città. Tornare a disperdere gli umani sul territorio significherebbe non avere più la natura, non avere discontinuità geografica o di densità. Credo che la soluzione peggiore sarebbe proprio quella di disperdersi sul territorio, perché significherebbe ridurre in maniera drastica sia la biodiversità culturale, sia la biodiversità naturale.

Collezione Italo Rota

Oggi si sta capendo che l’umanità sta andando verso una decrescita del numero di abitanti. La Cina, per esempio, è stabile, e quando la popolazione è stabile significa automaticamente che entra in un periodo di decrescita. Le ragioni della decrescita sono molteplici. Siamo di fronte a qualcosa che non avevamo previsto: pensavamo che ci fosse una crescita illimitata della popolazione, e invece non è così. Questo alleggerirà un po’ le città e le renderà meno bisognose di nuovi volumi; potrà offrire agli abitanti più spazio individuale, più spazi collettivi, ma anche più aree dove la complessità di una buona vita genererà spazi che oggi noi non possiamo immaginare.

Peter Cook, Archigram, 1972

Un altro tema è legato alla rappresentanza. È chiaro che la nostra democrazia oggi non assolve più in maniera corretta o sufficiente a questa problematica. Gli strumenti di oggi sono lasciati alla maturità della collettività. Se una collettività è matura, decide di correre e di crescere: in pratica si autogoverna, e le amministrazioni seguono la società. Non è un caso che le città più organizzate e più innovative nel lavoro siano anche le più democratiche. Dove c’è lavoro le persone non si occupano di pensare che chi viene da fuori ti ruba il lavoro.

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E quelli che vivono nei piccoli villaggi? Sono condannati all’estinzione? Credo che ci sia un certo numero di persone che non andranno mai a vivere in città, ed è strutturale. Non ci vanno per motivi pratici, per motivi economici, perché comunque alcune persone sul territorio servono; e poi ci sono quelli cui non piace la città: lo trovo normale.

Il punto è non lamentarsi se ci sono borghi di mezza collina abbandonati: li puoi risanare quando vuoi. Non devono essere a carico della società. Sono piccoli problemi facilmente risolvibili. Se tu pubblicizzi un borgo sul «New York Times», lo descrivi bene e fai sapere che le case sono vendute a un prezzo simbolico, credo che dopo qualche mese quel borgo sarà abitato.

La pandemia e i suoi effetti

In quest’anno di pandemia le città si sono assomigliate tutte, sono state obbligate a fare la stessa cosa. Quindi, che io conosca, non ce n’è una che abbia sviluppato qualcosa di originale per affrontare questa emergenza sanitaria che si è manifestata in tutto il pianeta. Quest’anno ha accelerato molti processi: l’uso del digitale è diventato una forma naturale degli umani. Non usare il digitale è diventato un progetto. Credo che nella dimensione del lavoro ci saranno molte conseguenze: una cosa che avverrà, per le città, sarà la desertificazione degli uffici: che cosa faremo di tutti questi edifici? Saranno non vuoti, ma parzialmente vuoti. Che cosa fare dello spazio che rimarrà?

Vecchi servizi cambieranno. Ma, nello stesso tempo, si è visto come le città che hanno industrie abbiano sopportato meglio la pandemia. L’Italia, se non fosse stato un Paese industriale, sarebbe fallito. L’industria, come il turismo culturale, è una cosa estremamente

fragile, nel senso che può risentire di qualunque disturbo: una guerra vicina, una pandemia, una tensione sociale sono le prime cose che incidono e creano incertezza. Mi sembra che il grande progetto sia il ritorno alla normalità, ma molte cose rimarranno.

Il grattacielo

Quello della crescita verticale delle città è un mito della fine del XIX secolo. Partiva da un’idea semplice: andando in verticale avremmo occupato meno spazio. Questo era molto funzionale all’organizzazione del lavoro. Oggi si fanno i grattacieli per altri motivi: per creare una sorta di landscape. Non penso che i nuovi grattacieli saranno molto diversi da quelli che si sono visti finora. Il bosco verticale, che è un edificio di transizione, pone una questione ma non una soluzione.

In realtà quello del grattacielo mi sembra un tema molto orientale: in Europa si fanno piccoli grattacieli. Con le nuove tecnologie arrivare a cento o centocinquanta metri vuol dire essere ancora nel regime delle case alte, anche come organizzazione tecnica. Il grattacielo si divide proprio in categorie di altezza: fino a quattrocento, fino a seicento metri; categorie che incidono immediatamente anche sull’organizzazione della vita all’interno di questi edifici.

I grattacieli vanno anche di pari passo con la sicurezza della società: nelle società stabili e sicure si fanno i grattacieli più alti; in quelle dove c’è bisogno di molto controllo sociale non ci si può permettere di fare certe cose, perché diventano troppo pericolose.

La città di quand’ero bambino

Se chiudo gli occhi e torno indietro a quand’ero piccolo, per me le prime manifestazioni della città sono stati l’arrivo dei Beatles in piazza del Duomo o la fiera campionaria a Milano, che per me era ogni anno la scoperta delle novità tecnologiche del mondo, delle installazioni delle aziende. Arrivare lì e vedere un cubo di vetro di venti per trenta metri pieno di sommozzatori con le mute nere era una visione da James Bond: una rappresentazione quasi fumettistica del mondo del futuro. La fiera campionaria era uno dei luoghi più creativi degli anni Cinquanta e Sessanta: c’erano le sperimentazioni e i mezzi finanziari per realizzarle. I padiglioni poi creavano gadgets che ti portavi via. I cartoonist più famosi hanno lavorato a questi gadgets, che erano tipici anche delle esposizioni universali, anche se queste erano molto più popolari.

Città d’Italia

La mia città, Milano, nel 1944 ha conosciuto un ‘architetto’ imprevisto: i bombardamenti. I bombardamenti hanno distrutto il sessanta per cento della città. Successivamente sono state prese alcune decisioni: conservare una parte del tessuto di Milano così com’era e costruire soltanto gli edifici demoliti. Hanno così creato questa collage city tra antico e moderno che è Milano. Questo la rende abbastanza divertente e unica, molto più vicina a una città della ricostruzione tedesca che non ad altre città italiane.

La differenza è che su Milano hanno operato architetti abbastanza snob che hanno creato episodi straordinari: dalla Torre Velasca agli edifici di Giò Ponti. La tradizione di Milano è di non creare luoghi pubblici: la città non ha mai avuto vere piazze, e l’unica grande piazza non l’ha mai usata, se non per concerti o comizi: la piazza del Duomo è sempre usata ai bordi; in mezzo non c’è mai nessuno, ci si va per dar da mangiare ai piccioni.

Per me City Life è poco riuscita: un’isola monolitica ai bordi della città. In questo grande centro commerciale i grattacieli svettano con le insegne della finanza, delle assicurazioni, delle banche. Una cosa di nessun interesse per la città; non sono nemmeno architetture straordinarie che lasciano il segno. Invece la zona Garibaldi-Repubblica è un luogo di vita. Una cosa triste è che c’è gente che da qualche anno va a Milano per fare una gita nella contemporaneità. Nel resto del Paese la contemporaneità si trova quando si è fuori dalle città.

Collezione Italo Rota

Nel territorio diffuso c’è di tutto, anche cose molto belle: fabbriche, zone agricole estremamente contemporanee, paesaggi con dentro di tutto. Ma alcune città sono molto tristi da questo punto di vista: basti pensare a Roma, che, pur avendo una grande dimensione in numero di abitanti e in energia economica, non riesce a fare un salto nel contemporaneo, a essere produttiva, a creare una circolarità.

In un Paese normale un’agglomerazione Roma-Napoli dovrebbe essere una delle locomotive economiche, per logica ovvia. Invece è un accumulo di questioni irrisolte. Si pensi alla mobilità giornaliera tra Roma e Napoli: molta gente si sposta tra le due città, che comunque rimangono separate.

Che cos’è una città

A volte mi chiedono una definizione universale di città. Quando mi fanno questa domanda, rispondo con la risposta più semplice e breve, che è ‘noi’. Non saprei come altro definirla. La città siamo noi, è sempre stato così. Quando non c’è più il noi, o si è sottomessi a un qualche fatto straordinario naturale o umano, oppure la città è morta.

La cosa interessante della città, a differenza del territorio diffuso, è che può morire. Una città muore anche se ha ancora abitanti. Dopo la morte di una città bisogna rifondarla, non si può ridarle vita.

Collezionare

Non ho mai contato i pezzi che ho accumulato, però sono molte, molte migliaia. In realtà non è una collezione: entrarci è come fare un viaggio e prendere tutto quello che sembra importante, portarlo con sé per qualche ora, immagazzinarlo mentalmente e poi rimetterlo in una scatola. Io credo molto a questo, a prolungare un po’ il momento del contatto, per assimilare una cosa che mi interessa. Se lei non ti rimare dentro vuol dire che non era per te: questo è un metodo che ho sempre seguito. Ho anche cose che non mi interessano, che reputo brutte, ma che sono importanti perché devo usarle: è un approccio mirato all’uso di questi oggetti e delle idee che veicolano.

Tra tutti, possiedo una decina di oggetti che reputo ancora come spinte propulsive per cercare di raggiungere una perfezione tecnologica o creativa. Sono per me oggetti- stimolo, che non cederei mai, perché funzionano ancora.

Uno degli oggetti per me incedibili è il libro di Walter Benjamin Einbahnstraße, anche perché è l’unico vero libro che abbia scritto. E poi è un libro perfetto; e ancor oggi dà molte visioni sulla città, ma soprattutto sugli umani che abitano nella città. Parla di un certo tipo di umano in cui io mi ritrovo, non completamente ma in buona parte: è il viaggiatore all’interno delle agglomerazioni urbane. Benjamin lo chiamava flâneur. ‘Annusare’ la metropoli credo che sia ancora il mezzo più ‘scientifico’ che possiamo usare. È un approccio fatto di tante cose, di molti materiali, compresi i corpi dei viventi, che a un certo punto assumono la stessa consistenza del cemento, e viceversa: i materiali prendono diritto di cittadinanza; tutti insieme dànno forma alla città.

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Certo, la città di Benjamin non esiste più. Oggi bisogna avere molte altre attenzioni: più che essere attratti dalla vetrina di un negozio occorre essere attratti dai meccanismi che spingono le persone al consumo. Oggi, se tu fotografi la Quinta Strada a New York o un boulevard parigino o una strada di Shanghai, anche se non vedi i volti, puoi benissimo capire in che città sei. I pezzi che compongono questa visione sono identici, ma ricombinati con tutt’altra logica. All’epoca di Walter Benjamin, se volevi riconoscere le strade bastava che vedessi com’erano vestite le persone: c’erano ancora stili che ti facevano identificare una città. Oggi è una combinatoria molto sofisticata degli stessi elementi: oggetti della Nike o di Armani che sono gli stessi, ma combinati in maniere del tutto diverse.

A volte mi domandano quale sia la differenza tra i souvenirs del turismo culturale e i pezzi della mia collezione. I souvenirs sono prodotti in vere e proprie centrali di pensiero, e la cosa è molto divertente. Ci sono società, per esempio in Italia, in Inghilterra e in Francia, dove si producono souvenirs per tutto il mondo. È molto interessante visitare le loro sedi, perché sono il concentrato del mondo, con tutti questi ricordi molto variati, anche se ultimamente si sta avviando un’omogeneizzazione.

Molti dei souvenirs presenti nel mio ‘accumulo’ sono piuttosto datati, comunque sempre legati a episodi particolari, spesso ad artisti che hanno fatto monumenti e ‘marcato’ una città.

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Quello del collezionismo di souvenirs è un tema particolarissimo. Sono collezioni che durano da più di un secolo. Negli anni Sessanta potevi fare la collezione dei modellini di tutti i grattacieli: New York, Chicago, Tokyo. Oppure c’erano tutte le grandi chiese e moschee. Ricordo che quand’ero bambino uno dei modellini più diffusi, che moltissimi avevano, era quello del Taj Mahal in alabastro. Oppure le statue dell’Isola di Pasqua, che però si compravano in Spagna o in Brasile.

Non so quale sia l’oggetto più prezioso della mia collezione. Dipende se uno lo vede in termini economici o in termini storici: sono cose molto diverse. Con il passare degli anni ci sono pezzi che potrebbero stare benissimo in musei anche importanti, ma magari perché è cambiata la natura degli oggetti che entrano in un museo. Oggi in un museo, anche di arte contemporanea, c’è un contesto in cui le opere si formano, ed è fatto di oggetti di natura intermedia tra l’arte, il documento e l’espressione di una società. Nella mia collezione ci sono anche oggetti senza valore economico, ma che ormai non possono mancare nelle collezioni di un grande museo di arte contemporanea, perché appartengono alla definizione di arte moltiplicata.

Oggi gli oggetti stanno modificando molto il loro valore. Pensiamo a quelli che io chiamo i ‘capolavori della natura’. I prezzi strabilianti – che giustamente cominciano ad avere – lo scheletro di un dinosauro completo o un grande meteorite sono alla pari di quelli di un bel pezzo di arte contemporanea. Uno scheletro di Tyrannosaurus rex completo piace o non piace, ma in sé è un oggetto fantastico. C’è tutto un collezionismo di animali estinti. Quelli, per esempio, io li acquisterei e li distribuirei come memento mori per gli umani.

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Poi c’è il ruolo del denaro, un’altra cosa molto speciale e molto semplice. Tu puoi avere molto successo nella vita, e il denaro ne è un derivato. Un’altra cosa è invece impostare il successo della tua vita sul denaro. Sono due processi molto diversi. Poi ci sono ancora altre forme di esistenza, come continuare a reinvestire tutto ciò che si accumula in esperienze, conoscenze, o per intraprendere nuove avventure.

Nell’ultimo anno molta gente ha accumulato denaro, volente o nolente, e nessuno sa come lo spenderà. Continuerà a risparmiare? Lo butterà via in una follia? Pagherà debiti? A seconda di come andranno le cose, la città ne risentirà.

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