Le donne di Klimt – La bellezza è sempre stata intesa come un’ancora di salvezza dalle brutture del mondo e della vita. Si tratta di un “culto” che ha accompagnato, di volta in volta sotto forme diverse, la storia dell’arte e, di conseguenza, dell’uomo stesso. Ma la bellezza può essere anche un luogo di perdizione e di smarrimento… un contesto indefinito come un sogno che svanisce al momento del risveglio.
Gustav Klimt ci insegna che il sogno, anche il più “dorato”, rischia di acquisire i connotati di un incubo attraente che ha il corpo e il volto della Donna. Le sue immagini femminili sono raffinate, astratte e sensuali. Forse più di ogni altro artista del suo periodo, egli ha saputo fissare nelle sue opere le paure più recondite dell’uomo dei suoi tempi.
La messa in discussione dei valori ottocenteschi, l’ansia e la corsa verso il progresso, l’ingigantirsi delle città e della realtà industriale con la conseguente disumanizzazione delle masse popolari; la crisi del mondo contemporaneo genera terrori e risveglia inquietudini mai del tutto sopite…
In questo clima torbido come le acque di un lago infestato, emerge lei, la Donna, appunto, con tutto il suo carico di fatalità. È l’epoca delle “cacciatrici di teste” che affollano il mondo dell’arte, della musica e della letteratura, e Klimt non viene meno a questa fascinazione perversa, quanto generalizzata.
La prima apparizione della “femme fatale” klimtiana, che codifica, per così dire, un prototipo femminile che si ripeterà quasi costantemente, seppur con le dovute varianti, è la cosiddetta Fanciulla di Tanagra (1890-1891).
Le donne di Klimt
Essa rappresenta l’antica Grecia nel ciclo di affreschi per il Kunsthistorisches Museum di Vienna, l’imponente museo di storia dell’arte che sorge nel cuore monumentale della capitale austriaca. Vestita di una tunica floreale, sembra sporgersi sospettosa e guardinga, da dietro una delle alte colonne che scandiscono gli spazi dell’atrio del museo. Di un pallore vampiresco, con la vaporosa chioma rossastra e lo sguardo ombroso, simboleggia il passaggio dalla pubertà alla maturità e, di conseguenza, il risveglio del corpo e l’iniziazione sessuale.
Un’altra ragazza allegorica, stavolta in posa frontale come un’antica icona e lo sguardo implacabile, magnetico, rivolto verso chi la osserva, impersona la Tragedia in un disegno in bianco e nero con elementi dorati, datato 1897. Stavolta l’aura sessuale si tinge di nero, il colore della tunica che ammanta il corpo di questa giovane immobile e luttuosa come la Morte stessa. Una decorazione composta di due donne piangenti e un drago memore della grafica orientale, allora in voga, incornicia questa vestale inquietante, che regge nelle mani una maschera tragica, icona del teatro greco.
A destra in basso, il rametto con le foglie a forma di cuore simboleggia l’eros, che qui acquisisce una valenza peccaminosa e demoniaca: la maschera urlante altro non è che il volto dell’uomo dominato dalla donna. Un’iconografia che si ritrova nella celebre, prima versione della Giuditta, eseguita nel 1901 e su cui torneremo più avanti.
Il 12 novembre 1898 segna un punto cruciale sia nel percorso artistico di Klimt, sia nella messa a punto della sua personalissima iconografia femminile.
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Quel giorno, infatti, è inaugurato il padiglione della Secessione Viennese, per ospitare la seconda mostra del gruppo di artisti dissidenti, capeggiati da Klimt, che vogliono creare un’arte alternativa rispetto a quella ufficiale, libera da costrizioni e censure ideologiche. Tra le varie opere esposte, figura la Pallade Athena, simbolo della Secessione e, al contempo, primo modello klimtiano della “femme fatale”.
Ritroviamo la posa frontale e statuaria vista nell’allegoria della Tragedia e la pelle diafana su cui spicca la chioma rossa della Fanciulla di Tanagra. Lo sguardo fisso, caratterizzato dagli occhi azzurri, acquosi, ci trapassa e si protrae verso l’orizzonte: è la visione di chi va oltre l’apparenza delle cose, alla ricerca della libertà. In questo caso, il riferimento è alla libertà d’espressione artistica, repressa dall’ottusità dell’opinione pubblica: un vero attacco alla società del tempo.
Al centro del petto, sulla corazza scintillante d’oro, spicca la testa della gorgone Medusa, pronta a pietrificare i propri nemici. Nella mano sinistra, la dea impugna una lancia, elemento verticale simbolo del fuoco, arma di luce contro l’oscurantismo, e vago riferimento fallico. Nella mano sinistra, sorregge un piccolo nudo di donna, con le braccia spalancate: un gesto che esprime apertura verso il mondo nuovo dell’arte di fine secolo, ma anche un’esplicita offerta sessuale.
Per Klimt, la donna è sia il nume tutelare della creazione artistica, sia il tempio sacro all’Eros. Alle spalle di Athena s’intravede una scena di lotta tra Eracle e Tritone, direttamente ripresa da un vaso greco: nell’eclettismo di Klimt, fondamentale è il recupero della tradizione figurativa antica, trampolino di lancio verso l’arte futura.
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Trascorrono tre anni dall’apparizione spiazzante della dea guerriera. Il 1901 segna il passaggio dalla mitologia greca all’altrettanto affascinante e misterioso mondo della narrazione biblica: Giuditta segna non soltanto l’inizio dello “stile aureo” di Klimt, ma anche la più compiuta affermazione del “tipo” della donna seducente e assassina ideato dall’artista viennese. E il cuore del nostro breve excursus.
Le donne di Klimt sono ammantate d’oro, e il fulgore che le circonda contribuisce ad allontanarle dalla materialità del mondo terreno e a proiettarle nella dimensione dell’Idea. O sarebbe più corretto dire dell’Ideale: quello universale dell’Eros. L’ampio uso di dorature fa parte, per così dire, del “dna artistico” di Klimt che è, giova ricordarlo, figlio di un orefice. Un importante influsso proviene anche dall’arte bizantina – mosaici e icone – e dalla pittura tardo gotica italiana. Gli sfondi lucenti e i monili d’oro che adornano le sue belle e pericolose modelle sembrano estrapolati direttamente dalle aureole dorate e dagli abiti cangianti delle opere di artisti come Gentile da Fabriano e Beato Angelico.
Tuttavia, la Giuditta klimtiana non appartiene affatto alla sfera della santità… Con la testa leggermente reclinata all’indietro, le pesanti palpebre socchiuse e la bocca semiaperta, dalla quale possiamo quasi percepire un sospiro che si spegne, lei simboleggia un duplice appagamento. Da un lato, quello dell’estasi amorosa e dell’abbandono orgasmico; dall’altro, la placata sete di sangue e di vendetta. Giuditta, infatti, afferra per i capelli la testa mozzata del generale Oloferne, in un gesto che, come evidenziato in precedenza, riprende quello della giovane mortifera del disegno Tragedia.
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Il tema del quadro è direttamente ispirato all’episodio biblico della decapitazione del generale assiro da parte dell’eroina Giuditta, liberatrice del popolo ebraico. Un soggetto affrontato molte volte anche da artisti famosissimi come Botticelli, Michelangelo e Caravaggio.
Ma all’epoca di Klimt, Giuditta, come Salomè, altro personaggio biblico, simboleggia la paura dell’uomo di fronte all’ipotesi di un capovolgimento della società patriarcale a vantaggio della dominazione femminile. È per questo motivo che l’arte simbolista e decadente, della quale Klimt è uno degli esponenti di spicco, pullula di immagini di streghe, sfingi, vampire, sirene e altre creature femminili ammalianti e, allo stesso tempo, potenzialmente mortali.
Come spiega anche Freud nel suo fondamentale libro L’interpretazione dei sogni, del 1900, la paura è condita anche dal desiderio… per questo motivo la donna, anche se portatrice di morte e distruzione, non può e non deve perdere la sua appetibilità sessuale.
Tornando alla nostra Giuditta, Klimt la raffigura con una veste trapunta di motivi decorativi dorati e slacciata su seno nudo. La sua pelle vibra di vitalità, creando un contrasto ancora più evidente con la testa recisa di Oloferne, che rimanda anche al tema masochista dell’evirazione e della castrazione del maschio. Un pesante collare di ascendenza bizantina le cinge il collo, quasi incastonandola nello sfondo dorato. La bella assassina, così, viene elevata al rango di inarrivabile opera d’arte, ma, allo stesso tempo, punita e intrappolata in eterno per via del crimine commesso.
Il monile d’oro sembra anche staccarle la testa dal busto, ed ecco profilarsi un’altra simbologia: così come Oloferne, anche Giuditta è stata, stavolta metaforicamente, decapitata. Attrazione e respingimento, paura e desiderio, colpa e punizione – oppure, per citare Dostoevskij, Delitto e castigo: la donna klimtiana incarna i deliri e le ossessioni del secolo appena nato.
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Stavolta, lo sfondo non è ripreso dall’arte greca, ma da quella assiro-babilonese. Nello specifico, Klimt riproduce la decorazione astratta e vegetale di un rilievo assiro con scena di guerra del VII secolo a. C. Si tratta di un espediente finalizzato a ricacciare Giuditta nei meandri millenari della storia e del mito, nel tentativo di esorcizzare un “demone erotico” attualissimo. Pur nella sua originalità, l’artista si è ispirato alle creazioni di altri artisti. La postura di Giuditta richiama quella della Madonna di Munch (1893-1894), nuda e quasi blasfema; mentre l’espressione del volto che condensa Eros e Thanatos, Amore e Morte, ricorda la Beata Beatrix di Dante Gabriele Rossetti, dipinta in più versioni.
Ogni fantasma che si rispetti, è noto, torna sempre a tormentare il suo “compagno onirico”… Così, qualche anno dopo, nel 1909, lo spettro di Giuditta si riaffaccia nei sogni (o dovremmo parlare di incubi?) di Klimt. L’opera Giuditta II segna il punto di arrivo dello “stile aureo” e anticipa il decorativismo tessile dello “stile fiorito”. Il formato verticale molto allungato ricorda proprio un antico e prezioso arazzo, laddove l’uso dell’oro si è ridimensionato. A parte la cornice, ne è rimasto un quadrato in alto a sinistra e un fregio di spirali.
Essi ci fanno pensare sia a degli accordi musicali, melodia seducente e mortale, sia alle antiche simbologie fertili delle divinità femminili. La spirale, in passato, indicava non solo il moto rotatorio universale, ma anche il grembo materno e l’utero, propiziatori di fertilità. Questa Giuditta si differenzia dalla sua omonima del 1901: non più appagata nella sua sete di vendetta e desiderio. Stavolta ci appare come una figura sfuggente, un fantasma sì tormentoso, ma anche tormentato.
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Una nevrosi di freudiana memoria le consuma e sconquassa il corpo esile; e, soprattutto, le bellissime mani dalle dita affusolate e tese come artigli, ma anche flessuose come fiori Art Nouveau. La testa di Oloferne, in basso a destra, sembra sprofondare nei meandri dell’ampia gonna decorata con una pioggia di motivi decorativi, geometrici e multicolori.
L’omicidio, a differenza della prima versione, non è ostentato. Anzi, sembra piuttosto che Giuditta voglia nascondere il suo trofeo di morte e fuggire frettolosamente e indisturbata; per rinunciare al ruolo d’idolo eterno – ed eternamente punito – che è toccato alla precedente versione di se stessa.
Come è noto, Gustav Klimt ha dipinto innumerevoli ritratti femminili, donne misteriose e sfuggenti dell’alta società viennese. Ognuna di loro incarna l’ideale estetico e amoroso dell’artista Jugendstil; ma nessuna come Giuditta, e le muse inquietanti che l’hanno preceduta, afferma con tale potenza il ruolo di “sacerdotessa dell’Eros”. Non soltanto icona dell’arte moderna, lei è una donna che decide, potente come una matriarca e una regina. Sa quando e se concedersi, ma non per soggiacere al maschio, tutt’altro; capace di amare e di uccidere, come in un sanguinoso gioco di seduzione, è essa stessa il potere.
By Danilo Borri.